Essere contro

Viviamo un  tempo di forti contrapposizioni. Questo, in politica è naturale: non può non esserci contrapposizione quando si tratta di esprimere una tesi che va a cozzare contro le idee dell’avversario e da questo nasce la discussione che poi dovrà necessariamente sfociare in un provvedimento. Perché di questo vive la politica: di cose da fare, anche se ci siamo abituati alla politica del dire più che a quella del fare.

Ma nella vita di tutti i giorni questa contrapposizone si nota ancora di più. Sembriamo sempre tutti gli uni contro gli altri armati.

Basta osservare quando si fa la fila da qualche parte. Qualcuno sbuffa, se fa caldo si sventola con qualcosa, si guarda attorno con aria seccata. Oppure se capita di aspettare il proprio turno dal medico: tutti seduti composti ad aspettare che si accenda la lucetta del nostro numerino, tutti a guardarsi attorno con fare circospetto, come se ci fosse qualcuno che vuole rubarci il turno, non sia mai.

E cosi in qualsiasi posto dove c’è da attendere.

Eppure si potrebbe approfittare per leggere, volendo anche scrivere, oppure conversare col vicino. Ma, in genere, sono in pochi quelli che hanno voglia di parlare, si teme, di solito che l’eventuale interlocutore possa approfittarne per scaricarci addosso tutti i sui problemi( e qualche volta capita).

Cosi, ovunque, dal supermercato alla banca, persino al bar che dovrebbe essere un luogo di ritrovo, si tende a guardarsi in cagnesco: non sia mai che quello o quella non entrino col cane o il passeggino e si mettano di traverso e non ti lascino il tuo spazio vitale. Perché è vero che ci sono tanti maleducati che si piazzano in mezzo al passaggio col cane di due metri e ti lasciano a chiedere permesso per dieci minuti e alla fine, invece di spostarsi, ti guardano con compatimento quasi a dire: ” ma quanta fretta, un po’ di pazienza diamine, ci sono qui io ora e ci sto fino a che mi comoda, chiaro?”. E allora, il sospetto di dover stare sempre all’erta ti viene.

Perché cosi fanno, non si spostano nemmeno con il lanciafiamme e tu sei costretto a trovarti la strada a fatica.

Anche in treno. Mi capita ogni volta che ci vado di trovare chi se ne sta beatamente seduto sul mio posto prenotato. Io guardo il biglietto, poi guardo il numero sopra il posto e osservo tra me: ma no, questo è il mio posto. E allora chiedo, dapprima gentilmente, dicendo che quello è il mio posto, prego signore si sposti. Ma lui (più spesso è un uomo) non ci pensa neppure: guarda lo smartphone, mi fa cenno di aspettare e intanto inizia a conversare al telefono.

E allora io, a quel punto divento cattiva e gli dico di levarsi da li immediatamente o chiamo il capotreno.

E, di solito, mi guardano un po’ interdetti con la faccia di chi pensa: ma tu guarda questa che capatosta, che caratteraccio, poi, piano, si decidono a levare le terga e a lasciarmi il mio posto.  Ma se abbozzavo…

Ma è cosi un po’ ovunque, non so se l’avete notato. C’è la tendenza a prevaricarti, a essere totalmente noncuranti del fatto che esisti, ma non è indifferenza o noncuranza, no, è proprio sfacciataggine, contrapposizione, appunto.

Voglia di litigare.Di altercare, di dimostrare che tu vali poco davanti a loro che valgono tanto e tu dovresti accorgertene e fartene una ragione (?).

Io, di solito, non mi faccio troppo impressionare da questo atteggiamento, vado dritta al punto e dico: guardi se ha voglia di litigare ha sbagliato indirizzo.

Ma ci sono anche quelli che sono prontissimi a dire che quella che vuole litigare sono io. Che loro, al contrario si comportano al meglio e che sono io che sono pignola, ipercritica, intollerante. Insomma, la tendenza generale è quella di mettersi contro a qualsiasi cosa, anche alla lampante malafede.

Da cosa deriva questo atteggiamento? Io credo che sia dovuto al fatto che i rapporti umani siano diventati sempre più complessi e difficili. Che i tanti mezzi di comunicazione abbiano alterato la capacità di confrontarsi direttamente e con lealtà. C’è sempre qualche schermo a contraffarre la realtà o a mostrarcene una contraffatta.

Non ci fidiamo di nessuno e quasi neppure di noi stessi proprio perché non siamo più sicuri se il nostro interlocutore sia reale o fittizio, se ci veda veramente o se pensi che siamo solo un’immagine riflessa sulla sua cornea.

E la politica degli ultimi decenni ha influito molto: la continua, sempiterna contrapposizione tra i partiti, la guerra continua tra fazioni, l’estenuante battibecco pubblico tra tesi diverse…sembra che sia quasi impossibile trovare punti di convergenza, di contatto, come se ognuno dovesse sempre, per forza andare in direzioni opposte, pena la loro stessa sopravvivenza.

E questo nei dibattiti sui social è molto evidenziato: ci comportiamo un po’ tutti come quei politici, rintuzzandoci a vicenda, difficilmente trovandoci d’accordo con le tesi di altri, a meno che non intediamo farli venire dalla nostra parte, per servircene, in qualche modo (ovviamente non sempre, ma in linea generale).

Il battibecco generalizzato è diventato quasi una costante, una forma di autodifesa dal mondo gravido di insicurezze che ci ospita.

Quasi come se, essere sempre contro qualcosa o qualcuno servisse a mitigare le ansie. Una continua psiconalisi di gruppo,dove però non si arriva mai ad incontrarsi ma, paradossalmente ci si allontana di più da se stessi e dagli altri.

Questa, naturalmente, in linea generale è l’impressione che ho io. Può essere giusta o sbagliata ma è la mia impressione. Attendo fiduciosa di conoscere la vostra.

4 commenti su “Essere contro”

  1. Mariagrazia,
    è vero, ci sono momenti in cui i nostri rapporti col prossimo sembrano stridere più di quanto una società evoluta e pluralista possa consentire.

    Certo, se viviamo in società, questa è ben regolata dalle sue leggi, convenzioni, prassi, e chi non le segue arreca danno e fastidio, ma poi c’è la libertà di pensiero, la diversità di giudizio, i gusti personali, la diversità di esperienze.
    Un contrasto entro certi limiti, che è difficile stabilire, io credo sia necessario per il progresso.
    Pensa che piattezza se la pensassimo tutti nella stessa maniera, come una sola persona, e quanti pochi stimoli e ricercare il meglio.
    All’opposto, un contrasto assoluto, continuo, fastidioso, strumentale, fatto per partito preso, non condurrebbe altro che nel caos, cosa che il vivere civile non consentirebbr.

    In definitiva, litighiamo pure, ma senza mai perdere di vista il rispetto del prossimo, senza voler necessariamente affermare noi sugli altri, senza dimenticare che si discute per attingere ad una conclusione più vicina alla verità, o per uno scopo costruttivo e propositivo e soprattutto cosiderando il prossino non un semplice antagonista, ma un nostro simile, che puo anche venirci incontro e in aiuto.

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  2. Ricordo, da letture dinsaggimdomsocisicologia, quando frequentavo Psicologia a Milano, che, purtroppo, in assenza di conflitti, la voglia cruenta di ferirsi, offendersi, fino ad arrivare all’omicidio, si diffonde a macchia d’olio, tra le masse. Ossia, lacserevdimsangue, più o meno repressa, deve trovare una valvola di sfogo, da quello semplicemente verbale all’uso di armi de oggetti, atti ad uccidere.

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  3. “non si arriva mai ad incontrarsi ma, paradossalmente ci si allontana di più da se stessi e dagli altri.”

    Maragrazia, a proposito di quanto dici, mi viene in mente un brano di “Horcinus Orca”, in cui si descrive l’incontro tra il protagonista, un marinaio siciliano sbandato, (siamo al tempo della seconda guerra mondiale, subito dopo l’armistizio), in cerca di chi lo possa traghettare in Sicilia, e un vecchio “spiaggiatore” calabrese che batte le spiagge in cerca di “fere” (delfini) arenate, per poi spacciarle, in quei tempi di carenza di cibo, come tonno.
    Tra i due nasce un dialogo, ma sembra un dialogo tra sordi: l’uno ha interesse di poter traghettare al più presto er tornare a casa, l’altro, col pretesto di aiutarlo, evoca i fantasmi della sua vita di vecchio spiaggiatore e le fantasie di femmimòtaro, ammiratore e adoratore delle femminote, (contabbandiere dì sale) -uniche, in quei fragenti di guerra, che avrebbero potuto aiutare il marinaio- suggerendogli -quasi immedesimandosi in lui- di “conquistare” la loro benevolenza.
    Ecco l’epilogo:
    “(Il vecchio) si era posato nel tramonto, in quel momento di verità della sua vita, perché per nessuno, come per uno spiaggiatore, il tramonto sembra cadere ogni volta non solo sul giorno breve di ore, ma su quello lungo della vita. E per lo spiaggiatore dev’essere ogni volta come trovarsi in punto di morte e ricordarsi del tempo vissuto e rivedere tutta la propria vita, come se il mare gliela rovesci, ondata su ondata, lì davanti, sulla riva, anni e anni, fra scoppi di spume che durano attimi. E non ha con chi parlare e deve essere questo il morire dello spiaggiatore (…)
    e quando per avventura gli capita di abboccarsi, proprio a quell’ora, con qualcuno, un marnaio, per esempio, lo spiaggiatore parla, parla, parla della sua vita vissuta e di quella anche non vissuta, non solo del vistocogliocchi reale, ma anche di quello immaginario,(…) si fa insomma furfantello di una vita che non visse, come di una morte che ancora non morì(…)

    “Quando il marinaio riprese a scendere, fuori di quella spiaggia taureana, aveva l’impressione allontanandosi che il vecchio, senza muoversi, si fosse allontanato lui per primo.”

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