Sostituto

Ti aggiri per le strade o nei parchi della tua città e non hai un cane al guinzaglio? Ti devi aspettare che qualcuno ti rimproveri per la tua mancanza totale di empatia per il mondo animale. In particolare il migliore amico dell’uomo. Il cane portato a spasso in centro a tutte le ore, seduto ai tavolini dei bar, nei negozi a farla negli angoli…è un must, una moda, un privilegio irrinunciabile. Non sei IN senza cane. Sei uno sfigato scanato. E basta.

Una nuova forma di dittatura si aggira per le nostre città e paesi, un po’ ovunque dove ti giri, giri, ci sono cani. Non so se sia mai stato fatto un censimento ma credo che la popolazione canina sia sull’ordine di milioni. Ma ‘ndo vai se il pittbull non ce l’hai?

Ma non basta. Tutto sarebbe nulla se i padroni non si sentissero, se cane muniti dei super eroi. Inutile dire che li devi far passare, che non ti devi scansare se il deretano del loro grazioso mastino ti sfiora mentre cerchi di passare su uno stretto marciapiede completamente invaso da lui e dal suo padrone/a, perché gli fai uno sgarbo, il padrone se ne accorge e ti apostrofa graziosamente: “se temi i cani, stai a casa”! A me è successo più di una volta. Oggi si è aggiunta anche questa frase, detta da un’amica della proprietaria del molosso che alla sua richiesta di starmene a casa ha aggiunto” sarebbe un bene per i cani”…

Sarebbe stato il caso di rispondere, ma che rispondi? Hanno sempre ragione! Chi sei, che vuoi? Che ci fai li? sono le domandine più ricorrenti. Quando non ti esortano a andare a nasconderti per il solo fatto di non aver baciato il…deretano del loro simpatico cucciolone.

Che spasso….

Poi ci sono i cani sciolti, senza guinzaglio perché giudicati “buoni” e se ti ringhiano li devi lasciar fare anche se si leggono spesso di cani che sbranano chi gli capita a tiro, anche i padroni.

Le donne sono le più aggressive con le altre donne scanate, hanno trovato il modo di sfogare le loro frustrazioni verso quelle che osano essere di aspetto decente e per giunta se ne vanno in giro impunite senza fare le moine ai loro cuccioli

Una società malata, frustrata, abbacinata dai social, da whatsup e similia e incapace di usare l’organo preposto al ragionamento e per molti il cane è usato come un sostituto dello stesso.

Domande

Sono curiosa. In molti sensi. Prima di tutto perché credo che la curiosità sia il motore che fa girare il mondo. Poi perché mi interessano cose a milioni e non ne so mai abbastanza.

Ma di una cosa ho imparato a non essere curiosa: del privato delle persone. Mi astengo da sempre  dal fare domande private. Forse, anzi, senz’altro è un retaggio della mia educazione. Mia nonna e mia madre sono state due esigenti educatrici e quello che si impara fino all’età di sette anni (dicono gli studiosi) non si dimentica più.

Non fare mai domande troppo personali, non sta bene, interessarsi dei fatti degli altri se non per aiutarli nel caso ne abbiano bisogno. E io ho imparato a non farle a costo di mangiarmi la lingua. S’intende che parlo degli estranei non delle persone di famiglia.

A casa dei nonni c’era un grande giardino e prati circostanti, una specie di paradiso in terra con poche case e molta natura. E io mi si trovavo a mio agio perfetto.  Ci stavo come “due piselli in un bacello”. mi è venuta in mente e ho subito trovato da dove mi proveniva, da questo:

No sono adorabili?

Dunque dicevo, la casa dei nonni dove ho passato buona parte della prima infanzia mi torna spesso in mente perché è “casa” in molti sensi, anche se nella vita ne ho poi cambiate un po’.

Io, però, di domande ne facevo continuamente, in famiglia e non ero mai soddifatta delle risposte, come tutti i bambini ma forse anche di più.

Le risposte erano sempre troppo vaghe, affrettate, buttate li, insomma non mi convincevano mai.

Sono cresciuta pensando che avrei dovuto imparare tutto per rispondermi da sola a tutte le domande che mi frullavano (e ancora mi frullano) nella testa.

E allora le ho chieste a i libri e  li, nei libri, ho trovato tante risposte ma ad ogni domanda appagata, quando credevo di aver capito qualcosa, sopraggiungeva un’altra domanda ed ero di nuovo li, al punto di partenza.

Credo che la vita non sia che una ricerca continua di risposte. Una rincorsa di domande e di risposte, spesso senza costrutto o anche senza un fine. La curiosità deve avere un fine e cioè quello di capire le cose importanti della vita altrimenti sono banalità di cui posso fare a meno

Le domande sono sempre giuste, le risposte possono anche essere sbagliate.

Non ricordo chi lo disse.

E cosi per non ricevere risposte sbagliate non faccio domande, da molto tempo. A meno che non sia l’orario dei treni o dell’appuntamento col mio dentista.

Tacerò?

Una ben nota massima recita: “Un bel tacer non fu mai scritto”. la conosciamo tutti, in quanto a metterla in pratica…

E allora ho deciso di provarci, un po’ perché fa caldo, un po’ perché il dibattito fra clima terroristi e negazionisti mi ha stancato e ho deciso che non porta a nulla se non a dare spago a certa politica del non fare non dire, non baciare lettera e testamento (quello magari no perché il testamento politico ormai non lo lascia più nessuno ma se lo tiene stretto, tanto è misero).

E, francamente delle beghe giudiziarie di Santanchè, posso dirlo? non me ne frega un bel niente.

E allora proverò a tacere. Mi hanno detto che opino troppo, scrivo troppo, che inondo il mio blog delle mie opinioni e che sarebbe ora che mi dessi una regolata…

E allora tacerò, per quanto non lo so, se avrò qualcosa da dire la dirò? Ma in fondo poi …ma anche no.

Grandina al nord si soffoca al sud, l’Italia divisa in due…quante volte lo hanno scritto? Io, francamente non ne posso più. Ma questa è la realtà. E allora facciamo del bel silenzio “parola non scritta”?

Mah…ogni promessa è debito ma poi a chi la farei? A chi (non) mi legge? Potrei anche rompere…la promessa. In ogni istante. Mi conosco. Mi do qualche minuto per cambiare idea…

Gli alberi

Ormai lo conoscevano tutti in città. La sua auto portava sempre sul tettuccio un paio di alberelli e nel bagagliaio, una vanga, una falce e una tanica d’acqua. Paolo era conosciuto come “l’uomo degli alberi”.

Aveva un bel lavoro e una bella famiglia: moglie e due figli che andavano alle superiori, un ottimo lavoro in una multinazionale dove era amato e rispettato da tutti.

Ma appena aveva un minuto libero, Paolo lo impiegava per cercare i posti adatti per piantare alberi che poi curava personalmente.

Da quando aveva iniziato questa sua “attività” non remunerata che faceva per puro piacere personale, ne aveva piantato quasi cinquanta e poteva andare fiero, se la sua città, pur se fatta oggetto da anni di una speculazione edilizia incontrollata, poteva considerarsi ancora una città verde e un posto piacevole, nonostante tutto, dove vivere.

Aveva ereditato la passione per la natura e gli alberi, in particolare, dal papà che aveva coltivato fino alla morte un bellissimo orto e un piccolo frutteto in periferia, dove c’era ancora la casa di famiglia e dove ancora abitava l’anziana madre. Ogni tanto andava a trovarla e, assieme ai fratelli, badava all’orto e al frutteto in modo che non deperissero.  E buona parte della frutta e verdura che vi veniva coltivata, bastava al fabbisogno alimentare di ben quattro famiglie.

Paolo amava gli alberi come si può amare dei figli o dei fratelli o amici. Li piantava nei punti più disparati della città. Ovunque trovava un posto libero, magari ai margini di qualche cantiere o lungo strade periferiche, altrimenti disadorne dopo che il Comune aveva abbattuto le piante secolari che le adornavano, per ragioni di sicurezza, dicevano.

Ma lui , ora cinquantenne, ricordava molto bene quei viali dove passava in bicicletta assieme al padre da bambino e che d’estate erano un tunnel ombroso e confortevole nella calura e l’autunno le foglie coloravano le strade coi colori del sole che le tingeva di tutte le gradazioni del marron bruciato, del giallo e del rosso e che scricchiolavano sotto i suoi piedi quando le calpestava.

Compagni ed amici, li aveva sempre considerati cosi. E nel frutteto, da bambino, mentre guardava il padre piantare i piccoli arbusti che sarebbero diventati alberi rigogliosi e carichi di frutta, aveva imparato a considerarli degli esseri viventi, alla stregua degli uomini o animali. E gli parlava,  accarezzava i tronchi levigati o ispidi, si arrampicava su di loro per arrivare a cogliere l’ultimo frutto maturo sul ramo più alto.

Quel giorno Paolo aveva caricato sull’auto una bella magnolia, ancora un arbusto ma già carico di foglie, un piccolo pino odoroso, la tanica da 20 litri, i suoi utensili ed era partito per la sua missione, verso il tramonto. Voleva sbrigarsi per poter raggiungere i suoi per la cena.

Aveva individuato un posto ideale per piantarci i due arbusti e il giorno prima aveva messo due cartoni sui punti precisi dove intendeva piantarli.

Si trattava di una piazzola di sosta, sterrata, ormai abbandonata a causa di una rotonda che aveva deviato il traffico e dove crescevano ciuffi di erbacce e dove poco lontano si intravedeva una gru che sostava sopra alcune palazzine in via di costruzione.

Il posto era appena fuori dalle arterie principali del centro e poteva costituire un luogo adatto per piantarci, nel tempo, un piccolo boschetto che avrebbe compensato, almeno in parte, tutto quel cemento che andava coprendo una parte cospicua, ancora miracolosamente libera, di suolo.

Ma avvicinandosi al posto, Paolo aveva scorto, ancora da lontano, che era occupato da qualcosa che non distingueva ancora bene. Lo scoprì ben presto.

Era un’ auto agganciata ad una vecchia roulotte che prendeva buona parte della piazzola e sostava  sopra i cartoni che Paolo aveva messo la sera prima.

Scese dall’auto e si avvicinò. Bussò al finestrino della roulotte perché gli era sembrato di vedere qualcuno muoversi al suo interno.

-Si?

–  Era la voce di un uomo che rispondeva affacciandosi al finestrino.

– Scusi, disse Paolo – ma lo sa che qui non è un campeggio e non si può sostare?

– Lei é dei vigili?

– No, ma sono amici miei e le posso dire che conosco come la pensano e poi qui ci devo piantare due alberi, pensa di fermarsi molto?

L’uomo fece un cenno di aspettare. Dopo alcuni minuti uscì. Si presentò porgendo la mano. Era un uomo alto e robusto, più o meno coetaneo di Paolo.

Lo invitò a salire sul veicolo ma Paolo rifiutò. Non poteva fidarsi cosi ingenuamente di questo sconosciuto.

L’uomo sembrò capire la sua diffidenza e apparve di colpo rattristato e invecchiato.

Si sedette sullo scalino della roulotte e cominciò a parlare con un tono pacato e guardando davanti a sé come se fosse stato solo. Raccontò, semplicemente e con proprietà di linguaggio, che era separato, che aveva lasciato la casa alla moglie ed ai figli, che aveva perso il lavoro,  i suoi erano tutti giù in meridione e che era solo ed era stato sfrattato perché non pagava da mesi l’affitto. Un amico gli aveva prestato la roulotte e si era messo nel primo posto che aveva trovato e questo gli era sembrato appartato ma allo stesso modo, non lontano dal centro dove si recava per cercare un lavoro qualsiasi. Era stato export- manager di una grande azienda che aveva licenziato oltre a lui un sacco di altra gente che si era trovata in mezzo alla strada da un giorno all’altro.

Aveva raccontato tutto questo con poche parole e il suo sguardo era più volte sembrato appannarsi e le parole farsi inudibili ma si era sempre ripreso.

  • Scusa, sai, ho bevuto tutto il cartone e forse si sente. Non sono un ubriacone ma stasera non ho saputo trattenermi. Lo disse di getto, senza guardare l’interlocutore, si capiva che provava vergogna.
  • Non preoccuparti, rispose Paolo, succede. Capisco.
  • Andrai a denunciarmi?
  • Ma no, anzi, dirò al mio amico capo dei vigili di chiudere un occhio se può, è una brava persona, vedrai capirà.
  • E i tuoi alberi?

Paolo sembrò riscuotersi  e ricordarsi solo in quel momento il motivo per il quale era li.

  • Li pianto lo stesso, basta che ti sposti di qualche metro, ti faranno compagnia, li innaffierai e quando avrai trovato casa e lavoro li verrai a salutare qualche volta, cosa ne dici?

L’uomo annuì col capo e sorrise leggermente con la piega della bocca, mentre il resto del volto rimaneva impassibile.

Poi, dopo qualche minuto di silenzio quasi imbarazzante fece cenno a Paolo di attendere e salì sul veicolo che era diventato la sua casa. Ne tornò dopo qualche minuto con un piccolo oggetto in mano

Era una piccola maschera intagliata nel legno, l’uomo gli raccontò di averla acquistata in uno dei suoi tanti viaggi in Africa. Gliela donava come portafortuna perché gli era riconoscente del fatto di essere stato la prima persona in tanti mesi ad averlo ascoltato cosi a lungo.

Poi salì in macchina e si spostò di qualche metro.

Giusto quel tanto che bastava per far posto a due nuovi amici.  Mentre si apprestava a scavare, Paolo pensò che gli uomini e gli alberi, in fondo, hanno tante cose in comune.

Ma quando mai?

Se c’è una cosa che mi ha sempre disturbato più di altre, fin da bambina, questa cosa è la permalosità.

Il dizionario indica nel permaloso un carattere incline ad irritarsi facilmente anche per le cose più banali:

“Che dà prova di una suscettibilità risentita e dispettosa, per lo più in corrispondenza di futili pretesti.”

Tutti sappiamo bene come si comporta un permaloso, ma sono sicura, che nessuno di noi sarebbe disposto ad ammettere di esserlo.

“Ma quando mai? Io permaloso? No, reagisco solo a critiche o osservazioni sbagliate o malevole, dettate per lo più dal desiderio di offendermi!”

Ecco cosa risponderebbe un vero permaloso nel caso gli si faccia osservare che se la prende per nulla. Ma poi, lo stesso è spesso una persona ipercritica che non si esime mai dal sottoporre il suo prossimo vicino o lontano, ad una radiografia del tutto non richiesta, gratuita, ma accurata nei dettagli.

Ma, quando gli fai osservare che sta criticando in eccesso ti salta alla giugulare come se lo avessi offeso a morte.

Per dire, siamo poco disponibili alle critiche ma siamo molto disponibili a criticare.

La permalosità nelle persone mi ha sempre un po’ spaventato perché avendo un carattere impulsivo (almeno questo mi dicono) dovrei spesso contare fino a dieci prima di parlare. Ma non ci sono mai riuscita, neppure arrivo a due. Scrivendo potrebbe essere più facile trattenermi, ma, al contrario, non so per quale meccanismo inconscio, lo sono anche di più.

Voi direte…puoi sempre rileggere e …pentirti. E invece no. Se rileggo non solo non mi pento ma, nel dubbio rincarerei la dose.

Non so voi ma io, fin da piccola, sono stata educata a pesare le parole col bilancino tanto che non riuscivo neppure a salutare le persone perché  non sapevo mai quando dire buongiorno, buonasera, arrivederci o, o, o, …e finivo col diventare di ogni colore e non dire nulla. E, quando mia madre mi interrogava sul perché non salutassi (maleducata, aggiungeva) io mi vergognavo di rispondere che non sapevo mai quale saluto usare, tutti mi sembravano sconvenienti.

Poi, col tempo, ho imparato a fare un semplice cenno con la mano, fino a che sono diventata abbastanza grande da discernere tra il giorno e la notte e finalmente ho imparato i convenevoli.

Ma il dubbio mi sorge ancora, di tanto in tanto.

E non basta. Spesso e fino ad una certa età, mi dilaniavo pensando se avessi o meno detto una cosa sbagliata che poteva ferire o infastidire il mio interlocutore…se ci penso ora non mi viene per niente da ridere perché mi ricordo le inutili pensate e il tempo perduto nel cercare di capire se era cosi o meno.

Poi ho imparato a non farci caso. Né ai permalosi né ai criticoni. O meglio, so che spesso i permalosi sono ipercritici per loro natura e allora se li conosco li evito. E quando non posso farne a meno li critico a mia volta oppure, ed è un metodo ormai collaudato che funziona…li mando a quel paese. Sperando che ci vadano senza offendersi, O anche no.

Il perché dei colori

Perché il cielo è azzurro e gli alberi sono verdi?  Una ragione c’è di sicuro.  Gli alberi azzurri e il cielo verde chi li vedrebbe? O non è solo una questione di abitudine?

No, decisamente non è abitudine. Un albero deve essere verde. E il cielo, azzurro. Non ci deve piovere.

Ma che idiozia. Chiedersi il perché dei colori. Eppure me lo sono chiesto questa mattina mentre guardavo il cielo azzurro con qualche sprazzo di bianco di nuvolette inconsistenti, passanti, indecise se fermarsi o liberare lo spazio dalla loro presenza. Stavo facendo colazione. E’ il momento della giornata in cui mi pongo delle domande. Da sempre.  Poi, con lo scorrere del tempo, ho altro da fare che chiedermi  il perché delle cose, ma la mattina, mi va. Sarà una questione di luce.

E in quanto alle risposte non ne trovo mai nemmeno una. O quasi. Sarà perché le domande sono sempre assurde,un po’ oziose, agostane o ferragostane.

Ma forse questa non era poi così sciocca.  Perché proprio quel colore e non un altro che corrisponda a quella cosa o ad altra? Insomma li colore delle cose è di per sé  una cosa che ha la sua importanza, indubbiamente affascinante. Dovrei approfondire e scoprirei che c’è una ragione, ovviamente e quando non c’è? E sarebbe una giusta obiezione che potrei pormi da sola, che è una domanda che rivela superficialità. Ma confesso che, spesso, andare a fondo delle cose mi spaventa.

Riflettendoci, però,  andare a fondo non è poi cosi spaventoso. Sarà perché “il fondo” mi da l’idea di buio?. Non c’è tanta luce e i colori non si vedono bene. Al fondo la luce diventa flebile, i colori, si attenuano. 

Mi diceva mia madre: rifletti, bene, sempre, prima di parlare , vai a fondo dei problemi, non lasciare le cose a metà. Un classico tormentone dell’infanzia.

Ovvio che quando si è piccoli si ha la tendenza a saltare i problemi, approfondire è una parola che  spaventa subito quasi come l’orco delle fiabe, quasi come un compito per le vacanze.

Ma da adulti la cosa cambia. Si dovrebbe cercare di andare oltre l’apparenza. Si dovrebbe.

Ecco, appunto, le apparenze. Sono, i colori, apparenze? Una rosa mi appare rosa perché quello è il suo colore per effetto della riflessione della luce sulla sua superficie.  Quindi quello che appare rosa è rosa e quello che appare rosso è  rosso. O no? Un esperto mi chiarirebbe i dubbi spiegandomi le leggi dello spettro di luce e dei colori e che le gamme infinite di variazioni di tonalità sono  dovute alla riflessione della luce sulle  superfici  alle forme e alla composizione dei corpi. E tutto mi tornerebbe. In fondo (ma anche in superficie) non è tanto difficile.

Ma poi? Anche ammesso che arrivi a farmi una ragione delle leggi della fisica, quando vedo un tramonto rosso fuoco e non posso fare a meno di commuovermi a quello spettacolo, chi mi spiega cosa succede dentro l’anima alla vista di quelle pennellate di rosso e rosa e violetto e perché si viene colti quasi da sgomento nell’intuire che dietro a quello spettacolo c’è una mente che lo ha architettato?

Ed allora, a questo punto, tutte le leggi della fisica devono lasciare lo spazio alla metafisica. L’universo dei colori o anche i colori dell’universo sono il tocco finale, la mano di vernice, la pennellata che serve a finire il lavoro e che lo compie, lo ultima, lo abbellisce e completa.

E chi l’ha data? Chi ha “costruito” l’universo non poteva farlo incolore,  perché i colori sono quello che ne fa un capolavoro. Ecco che la mia domanda oziosa dell’ora di colazione questa volta potrebbe non esserlo. Il cielo è azzurro e gli alberi verdi perché l’ Architetto li ha voluti cosi, questo è il Suo gusto personale, la Sua Idea di Universo, la perfezione.

E la perfezione si trova andando a fondo, in superficie non si trova. Non è a portata di mano. Si dice: non è di” questo” mondo. E preferiamo lasciare le cose a metà quando non vogliamo capire, guardiamo la superficie incresparsi ma sotto non ci fidiamo di andare. E’ un processo lungo e difficile e ci si perde seguendolo e a volte non ci si ritrova. E’ un percorso ad ostacoli in cui si inciampa più di quanto non li si superi. Diciamo, spesso, che tutto quello che appare è e che tutto quello che è appare. E che se ci fosse, l’Architetto dovrebbe mostrarsi e non dovrebbe esistere il buio e tutto dovrebbe essere a colori e il fondo non dovrebbe essere un luogo dove ci si può anche perdere, ma un posto dove il colore rende tutto luminoso e chiaro  anche nelle caverne più nere. Se ci fosse.

Ma un albero è verde e si staglia sull’azzurro e l’azzurro risplende nei suoi contorni e anche il buio può essere apparenza e i colori esserci  anche a fondo come in superficie. 

 La  rosa è di tanti colori  e un tramonto di fuoco  o un’alba radiosa sul mare, d’estate, appaiono e sono la rappresentazione dell’anima  del mondo. E di quella di tutti i colori del mondo. O del mondo a colori, di quello che appare e scompare, che si vede o non si vede. Alla luce o al buio. Sempre… Ma tra un po’ risalgo.

Paladino…dei poveri

Ho letto tante cattiverie contro la premier Meloni in questi mesi in cui è al governo. Piccinerie o anche vere e proprie invettive. Alcuni di questi epiteti sono irripetibili, una campagna di odio in piena regola. Lei rappresenterebbe la “destra becera”, a detta di molti. Lei sarebbe la reincarnazione di Mussolini e del fascismo, quello che ha portato l’Italia alla rovina e alla distruzione.

Ebbene in quasi nove mesi di governo, non si notano le prerogative di dittatrice delle quali molti la “gratificano”. Non si notano, sembra essere una piuttosto “moderata”, forse persino troppo per i suoi “alleati”. Morto Berlusconi lei, ora si deve far carico di quella parte conciliante per non dire dialogante di cui Berlusconi si fregiava.

Ma per i suoi detrattori non sta facendo nulla di nulla che sia positivo. Giochicchia alla dittatrice andando in giro per il mondo a nostre spese. Questa è la vulgata.

Mentre dall’altra sponda, gli sbaciucchi tra Conte e Schlein continuano a favore di telecamere, anche se si fanno reciprocamente abbastanza schifo.

Il salario minimo, la pace nel mondo…e quanto altro che suoni “di sinistra” , va bene, In fondo fa troppo caldo perché gli italiani si accorgano troppo delle prese per i fondelli; al mare poi i fondelli stanno appesi sotto l’ombrellone.

Il salario minimo è una battaglia forte, indicativa della volontà di fare il bene dei poveri lavoratori…ma lo sappiamo che l’80 per cento dei contratti lo applica già quel minimo o anche di più?

E sappiamo che chi fa lavorare in nero dei contratti e delle leggi se ne strafrega? E che i salari andrebbero aumentati tutti, a prescindere e che sono quasi otto anni che sono fermi congelati, quando non diminuiscono? (Dove è stata la sinistra)?

Ma a Conte e Schlein basta riempire le gote di questa ennesima “battaglia” per i poveri, loro si che ci pensano, ai poveri.

Conte poi, è uno che i poveri li ha come chiodo fisso ma frequenta…i ricchi (se stesso) e ha una compagna che rottama i suoi debiti col fisco, mentre il suo caro va a fare i giretti in piazza contro le rottamazioni delle cartelle esattoriali che il governo (anche questo, come tutti) ha permesso.

Conte: Nessuno diventato duecentomila (o su di li all’anno) grazie al suo amore per i poveri (e per i soldi),

Come la vendono bene però questa politica schizofrenica i “bravi” Conte e Schlein. Questa poi, che dice che se ne sta li fino a che si stufa. A fare i balletti in piazza e sbaciucciarsi col Conte, Paladino dei poveri, compagno dei ricchi…sfondati.

Al massimo del salario…minimo, entrambi.

Vatti a nascondere

Lui se ne sta al fresco. La temperatura di Mosca oggi: 15 gradi, pioggerella. Ma, andare un po’ sulla Costa Azzurra no? E vacci Vlady. Smetti con questa ossessione di riprenderti la povera, bella, martoriata (da te) Ucraina. Lasciala in pace! Ma ti rendi conto che hai 70 anni? L’età d’oro, l’età della saggezza, sei uomo maturo (non) serenamente avviato verso la vecchiaia.

Ora, pensaci bene, ma chi te lo fa fare? Lo vedi no? Loro non ci stanno a farsi conquistare da te, non gli piaci. Ma come te lo devono dire?

Non teme la controffensiva? Vuoi fare il figo? Il meglio figo del bigoncio (ma che è?). Ma lo sei za, sei Zar, che vuoi di più? ma non ti basta il potere che hai? No? ne vuoi di più? Temi Biden?

Ma se ha più di una decina di anni più di te e poi, che vuoi che ti faccia? Se ti ritiri tu, figurati lui. Ha voglia di starsene in pantofole nella White House a pensare ai cavoli suoi, cavoli americani ma sempre cavoli sono, con quel Trump che gli sta col suo fiato umidiccio sul collo grinzoso.

Ma dai su, ma sei pieno di soldi che non sai manco cosa farne. Li vuoi buttare in bombe, tutti in armi e munizioni per far vedere la tua grandezza? Ma che grandezza è quella di uno che vuole affamare il mondo? Quel mondo che sopravvive grazie al grano ucraino tu lo vuoi vedere morto di fame?

Ma pensa che anche tu, non fra molto, dovrai vedertela con l’Altissimo e allora? Che gli racconterai? Attento, potresti ritrovarti nelle peste.

Che temevi la Nato? che volevi difendere i russofoni? ma tu credi che ti starà ad ascoltare? Ma tu pensi che sia uno come Recep il turco o come Cyril l’africano? Ma è molto ma molto di più e non è consorziato coi Brics, ma neppure in sogno, (se sognasse).

Dunque? Fai una bella cosa. Chiudi tutto da notte, vattene in qualche soggiorno dorato in incognito, con la maschera ma anche no, tanto la tua basta e avanza.

E piantala di giocare al Grande Dittatore. Non ne hai la stoffa e ti manca anche qualche bottone. Fatti vedere da uno bravo e falla finita.

Ritirati, vai in pensione, in qualche eremitaggio, ma fai qualcosa: vatti a nascondere.

Flash back

Prendo un the al gelsomino e ci metto un tocchetto di zenzero. The verde, naturalmente. Sono quei piccoli piaceri della vita. Si, piccoli piaceri, poi ci sono quelli grandi, ma quelli arrivano se arrivano e quando arrivano sei quasi sempre troppo occupato per accorgertene. E spesso ti sfuggono.

Dunque, dicevo, che il the verde al gelsomino mi piace e ne prendo tre tazze al giorno.

Ma quel giorno, un giorno di tanti anni fa, mi trovavo seduta al bar del centro. Nella piazza del paese, una bella piazza, circolare, come deve essere una piazza e con al centro il monumento ai Martiri della Resistenza.

E’ un bel monumento, raffigura un partigiano con le mani alzate unite e legate da una corda, le mani si allungano al cielo e l’espressione dell’uomo è molto sofferente, sembra un Cristo in croce.

Una lapide, accanto, con alcuni versi di una poesia che parla del sacrificio dei partigiani e dell’importanza della loro lotta. Una scritta dorata, in rilievo che molti leggono distrattamente senza neppure capirne il senso.

Lo si intuisce dalle loro facce che qualche volta mi fermo ad osservare. E, spesso, ci fanno giocare i bambini su una specie di scivolo di marmo che trattiene la lapide. Incuranti del valore, profondo, di quella statua. Di cui, forse, neppure capiscono il significato.

La poesia è una grande cosa. Per chi l’ama. Dice tante cose, piccole o grandi o enormi, con poche parole. Lo so, i poeti in genere sono antipatici ai più. Pretendono che tutti li stiano ad ascoltare, oppure si tengono i loro versi chiusi in un cassetto e ci rimuginano su senza avere il coraggio di farli leggere a nessuno. Ci sono gli spudorati e i timidi. Ma la poesia deve essere un po’ spudorata altrimenti non passa, non si fa strada, viene risucchiata indietro, finisce in angoli bui. Oppure se è timida devono passare secoli prima che qualcuno la prenda sul serio e magari, con qualche sforzo, l’apprezzi. Vale anche per le persone, a volte. Ma è la forma d’espressione che più ci fa consapevoli di appartenere a qualche cosa di grande, di indefinito, assieme alla pittura che, però, a volte, è prepotente e persino arrogante. Mentre la poesia si affaccia dal foglio, la pittura trasborda dalle tele e a volte è quasi uno schiaffo. Ma altre volte, invece è quel miracolo di bellezza che si fa perdonare.

Mi trovavo li seduta e stavo sorseggiando il mio the.

Passa uno. Si ferma, mi guarda,sembra riconoscermi.

“Scusa, ma tu…non sei…?. E mi dice il mio nome per esteso. ” Scusi, non ricordo, …” ribatto stupita.

E penso: chi sarà questo sconosciuto cosi bene informato? Poi lo guardo meglio: alto, capelli neri appena spolverati di fili argentati, buttati all’indietro, una fossetta sul mento, naso aquilino, occhi verdi, magro  ma non troppo, atletico, ben vestito. Quasi, quasi mi faccio tornare la memoria. Mi dispiace, possibile che sia cosi smemorata?

Poi, d’un tratto, sapete come succede nei film? Ho una sorta di flash-back e mi torna in mente tutto. Ma proprio tutto.

Quell’estate a Misurina. Ecco dove l’ho conosciuto. Ma come è cambiato! Me lo ricordavo più grasso e con qualche brufoletto. Ma quanti anni aveva? Forse 17 o 18…mah. E anch’io, 16 o 15. Adolescenti, insomma.  Quello che mi ricordo più di tutto sono le nuotate nel lago. Freddo, gelato. I tuffi dal pontile e le gite in barca. Si, credo di essere stata proprio felice in quei momenti, me ne ricordavo come se li avessi più sognati che vissuti.

Ma non è mai successo niente tra di noi. Solo che lui mi ha tampinato da subito. Ma aveva già la ragazza e faceva parte della compagnia. Lo spudorato. Ma un giorno me lo disse che se lo avessi voluto era disposto a lasciarla anche subito. Si, magari non proprio subito.

Non ricordo bene  come andò, ma a me non piaceva troppo e neppure mi piaceva troppo l’dea di essere una “sfascia famiglie”. Si fa per dire, naturalmente. Ma era simpatico, come altri della compagnia.Ma niente di più. E poi ricordo che mi divertivo molto  a nuotare e anche a ballare e non mi andava di legarmi a nessuno.Ero una ragazzina mentre lui mi sembrava già un uomo.

Guardavo dentro la tazza, ora. Il mio the stava diventando freddo.

“Ma tu che cosa fai da queste parti”?

“Sono un finanziere, mi hanno trasferito qui da qualche giorno”.

“Ah, si? E ti piace qui”? Domanda sciocca, giusto per riempire quel momento per me cosi imbarazzante.

“Bellissimo, si, mi piace molto”. Mostrando persino troppo entusiasmo.

Mi chiede se abito vicino, rispondo che no, cioè, si, no, sono di passaggio. Mamma mia, questa è pazza, deve aver pensato.

Mi sentivo a disagio, improvvisamente, la vita, tanta, era passata, cosa c’entrava, ora, questo con me? Nulla. E da dove era sbucato? Era durata anche troppo quella strana conversazione. Forse era meglio se mi alzavo e me ne andavo subito, anzi, di corsa. E lo feci lasciandolo con un’espressione un po’ perplessa a guardarmi attraverso il vetro mentre attraversavo a passo svelto la piazza.

Perché il the era ormai freddo e a me piace caldo. Anche d’estate. E’ un piacere piccolo ma intenso e delicato e a lasciarlo raffreddare perde un poco o tutta della sua piccola, grande magia.

Sconforto

Scherzo di mano, scherzo di villano. Si diceva così un tempo di chi toccava senza essere autorizzato e si giustificava dicendo che si era trattato di uno scherzo.

Il bidello della scuola di Roma che è stato assolto perché la sua palpata del sedere di una studentessa era durata troppo poco per costituire “concupiscenza”, ora si sentirà un eroe dei nostri tempi?

Si, insomma, uno che la fa franca e dopo aver toccato i glutei di una studentessa può andare in giro a dire di essere stato assolto perché “scherzava”, non può che essere un “villano”. Ma un villano impunito, come direbbero a Roma.

A che è servito denunciare quella che la ragazza ha percepito come una violenza? E come si deve sentire lei ora, dopo che il bidello è stato assolto? Una che non sa distinguere una violenza da uno scherzo?

Quale è il limite dello scherzo quando si tratta di toccare una donna nelle parti intime e passarla liscia?

Personalmente credo che lo scherzo deve far ridere, evidentemente lei non si è divertita affatto. Anzi, si è sentita violentata e con ragione. Che diritto aveva questo “signore” di mettere le sue manacce dentro gli slip di questa ragazza che stava salendo le scale della sua scuola e non si aspettava certo di essere vittima di scherzi come quello? Nessuno. Ma la legge gli da ragione, suvvia, dicono i giudici, è durato meno di 10 secondi, è una cosa da nulla…

Le donne a questo punto si sentiranno di essere prese in giro due volte, la prima per avere creduto di essere tutelate dalla legge e che possedere un sedere non sia una prerogativa che le deve necessariamente esporre al rischio di venire palpeggiate a tradimento e la seconda perché dopo una denuncia che costa sempre una grande fatica fisica e morale, sentirsi dire che è tutto inutile, lui, il palpeggiatore era scherzoso…ma come siete suscettibili…è davvero sconfortante.