I due amici

Questa mattina mi sono accorta di un condominio in costruzione, cresciuto dal giorno alla notte, in uno dei pochissimi spazi verdi rimasti nella mia città. Un pezzo di terra, una sorta di boschetto recintato, proprio in centro, salvatosi dalla speculazione, quasi per miracolo.

Ti sparisce la terra da sotto i piedi e alberi centenari vengono rimossi dal paesaggio come fossero oggetti ingombranti e fastidiosi. Tanto inquinamento e la conseguente pessima qualità dell’aria lo dobbiamo anche a questo scriteriato e continuo abbattimento di alberi sani. Mi è venuto un nodo alla gola e mi sono ricordata di un racconto che avevo scritto  dopo aver assistito all’abbattimento di alcuni splendidi pioppi ed ispirato dalla notizia che avevo letto su un giornale di un signore che piantava alberi, nella sua citta, dovunque trovava uno spazio libero per contrastare il cemento.

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Ormai lo conoscevano tutti in città. La sua auto portava sempre sul tettuccio un paio di alberelli e nel bagagliaio, una vanga, una falce e una tanica d’acqua. Paolo era conosciuto come “l’uomo degli alberi”.

Aveva un bel lavoro e una bella famiglia: moglie e due figli che andavano alle superiori, un ottimo lavoro in una multinazionale dove era amato e rispettato da tutti.

Ma appena aveva un minuto libero, Paolo lo impiegava per cercare i posti adatti per piantare alberi che poi curava personalmente.

Da quando aveva iniziato questa sua “attività” non remunerata che faceva per puro piacere personale, ne aveva piantato quasi cinquanta e poteva andare fiero, se la sua città, pur se fatta oggetto da anni di una speculazione edilizia incontrollata, poteva considerarsi ancora una città verde e un posto piacevole, nonostante tutto, dove vivere.

Aveva ereditato la passione per la natura e gli alberi, in particolare, dal papà che aveva coltivato fino alla morte un bellissimo orto e un piccolo frutteto in periferia, dove c’era ancora la casa di famiglia e dove ancora abitava l’anziana madre. Ogni tanto andava a trovarla e, assieme ai fratelli, badava all’orto e al frutteto in modo che non deperissero.  E buona parte della frutta e verdura che vi veniva coltivata, bastava al fabbisogno alimentare di ben quattro famiglie.

Paolo amava gli alberi come si può amare dei figli o dei fratelli o amici. Li piantava nei punti più disparati della città. Ovunque trovava un posto libero, magari ai margini di qualche cantiere o lungo strade periferiche, altrimenti disadorne dopo che il Comune aveva abbattuto le piante secolari che le adornavano, per ragioni di sicurezza, dicevano.

Ma lui , ora cinquantenne, ricordava molto bene quei viali dove passava in bicicletta assieme al padre da bambino e che d’estate erano un tunnel ombroso e confortevole nella calura e l’autunno le foglie coloravano le strade coi colori del sole che le tingeva di tutte le gradazioni del marron bruciato, del giallo e del rosso e che scricchiolavano sotto i suoi piedi quando le calpestava.

Compagni ed amici, li aveva sempre considerati cosi. E nel frutteto, da bambino, mentre guardava il padre piantare i piccoli arbusti che sarebbero diventati alberi rigogliosi e carichi di frutta, aveva imparato a considerarli degli esseri viventi, alla stregua degli uomini o animali. E gli parlava,  accarezzava i tronchi levigati o ispidi, si arrampicava su di loro per arrivare a cogliere l’ultimo frutto maturo sul ramo più alto.

Quel giorno Paolo aveva caricato sull’auto una bella magnolia, ancora un arbusto ma già carico di foglie, un piccolo pino odoroso, la tanica da 20 litri, i suoi utensili ed era partito per la sua missione, verso il tramonto. Voleva sbrigarsi per poter raggiungere i suoi per la cena.

Aveva individuato un posto ideale per piantarci i due arbusti e il giorno prima aveva messo due cartoni sui punti precisi dove intendeva piantarli.

Si trattava di una piazzola di sosta, sterrata, ormai abbandonata a causa di una rotonda che aveva deviato il traffico e dove crescevano ciuffi di erbacce e dove poco lontano si intravedeva una gru che sostava sopra alcune palazzine in via di costruzione.

Il posto era appena fuori dalle arterie principali del centro e poteva costituire un luogo adatto per piantarci, nel tempo, un piccolo boschetto che avrebbe compensato, almeno in parte, tutto quel cemento che andava coprendo una parte cospicua, ancora miracolosamente libera, di suolo.

Ma avvicinandosi al posto, Paolo aveva scorto, ancora da lontano, che era occupato da qualcosa che non distingueva ancora bene. Lo scoprì ben presto.

Era un’ auto agganciata ad una vecchia roulotte che prendeva buona parte della piazzola e sostava  sopra i cartoni che Paolo aveva messo la sera prima.

Scese dall’auto e si avvicinò. Bussò al finestrino della roulotte perché gli era sembrato di vedere qualcuno muoversi al suo interno.

-Si?

–  Era la voce di un uomo che rispondeva affacciandosi al finestrino.

– Scusi, disse Paolo – ma lo sa che qui non è un campeggio e non si può sostare?

– Lei é dei vigili?

– No, ma sono amici miei e le posso dire che conosco come la pensano e poi qui ci devo piantare due alberi, pensa di fermarsi molto?

L’uomo fece un cenno di aspettare. Dopo alcuni minuti uscì. Si presentò porgendo la mano. Era un uomo alto e robusto, più o meno coetaneo di Paolo.

Lo invitò a salire sul veicolo ma Paolo rifiutò. Non poteva fidarsi cosi ingenuamente di questo sconosciuto.

L’uomo sembrò capire la sua diffidenza e apparve di colpo rattristato e invecchiato.

Si sedette sullo scalino della roulotte e cominciò a parlare con un tono pacato e guardando davanti a sé come se fosse stato solo. Raccontò, semplicemente e con proprietà di linguaggio, che era separato, che aveva lasciato la casa alla moglie ed ai figli, che aveva perso il lavoro,  i suoi erano tutti giù in meridione e che era solo ed era stato sfrattato perché non pagava da mesi l’affitto. Un amico gli aveva prestato la roulotte e si era messo nel primo posto che aveva trovato e questo gli era sembrato appartato ma allo stesso modo, non lontano dal centro dove si recava per cercare un lavoro qualsiasi. Era stato export- manager di una grande azienda che aveva licenziato oltre a lui un sacco di altra gente che si era trovata in mezzo alla strada da un giorno all’altro.

Aveva raccontato tutto questo con poche parole e il suo sguardo era più volte sembrato appannarsi e le parole farsi inudibili ma si era sempre ripreso.

  • Scusa, sai, ho bevuto tutto il cartone e forse si sente. Non sono un ubriacone ma stasera non ho saputo trattenermi. Lo disse di getto, senza guardare l’interlocutore, si capiva che provava vergogna.
  • Non preoccuparti, rispose Paolo, succede. Capisco.
  • Andrai a denunciarmi?
  • Ma no, anzi, dirò al mio amico capo dei vigili di chiudere un occhio se può, è una brava persona, vedrai capirà.
  • E i tuoi alberi?

Paolo sembrò riscuotersi  e ricordarsi solo in quel momento il motivo per il quale era li.

  • Li pianto lo stesso, basta che ti sposti di qualche metro, ti faranno compagnia, li innaffierai e quando avrai trovato casa e lavoro li verrai a salutare qualche volta, cosa ne dici?

L’uomo annuì col capo e sorrise leggermente con la piega della bocca, mentre il resto del volto rimaneva impassibile.

Poi, dopo qualche minuto di silenzio quasi imbarazzante fece cenno a Paolo di attendere e salì sul veicolo che era diventato la sua casa. Ne tornò dopo qualche minuto con un piccolo oggetto in mano

Era una piccola maschera intagliata nel legno, l’uomo gli raccontò di averla acquistata in uno dei suoi tanti viaggi in Africa. Gliela donava come portafortuna perché gli era riconoscente del fatto di essere stato la prima persona in tanti mesi ad averlo ascoltato cosi a lungo.

Poi salì in macchina e si spostò di qualche metro.

Giusto quel tanto che bastava per far posto a due nuovi amici.  Mentre si apprestava a scavare, Paolo pensò che gli uomini e gli alberi, in fondo, hanno tante cose in comune.

 

 

 

Nessuna pietà

Dopo aver letto molto sul caso del produttore americano Weinstein , mi sono accorta che a questa storia manca qualcosa. Non sapevo bene cosa, poi ripensandoci ho capito cosa manca. Manca qualsiasi accenno ad un, seppur larvato, sentimento di vicinanza al prossimo. Nessuna pietà, neppure l’ombra.

Non sempre, ma quando di parla di rapporti sessuali, l’amore dovrebbe essere sotteso. Nel caso in questione c’era solo l’avidità di potere di un uomo di potere. C’entra poco anche il fatto che l’arma del ricatto fosse il sesso. Ci vedo la volontà sistematica, quasi scientifica, di dimostrarsi potente. Nel senso di imporre la propria volontà ad una donna.

Il caso andrebbe studiato da uno psicanalista del profondo. Definirlo, come ha fatto Asia Argento (una delle sue vittime) “orco”, gli da già una precisa connotazione di un uomo avido e vorace. Ed un motivo ci deve pur essere.

A leggere la cronaca di quelle violazioni di donne che si presentavano a lui nella sua veste di produttore cinematografico,viene un moto di ribrezzo nel constatarne l’automatismo, quasi una fredda procedura alle quali l’uomo sottoponeva le sue vittime. E la cosa ancora più perversa era il piacere che deve avere provato al pensiero che non avrebbero mai avuto il coraggio di denunciarlo per paura di perdere il lavoro e che, al contrario, formalmente , gli avrebbero dovuto persino dimostrare riconoscenza. In pubblico avrebbero dovuto persino dimostrare devozione , quasi una sorta di affezione. E per molte di loro è stato così.Nonostante la rabbia e i sentimenti di colpa, di disistima verso se stesse e di impotenza.

Una perversione morale abietta che non può non avere motivazioni psicologiche profonde. Ma questo non significa dare giustificazioni ad un simile comportamento, al contrario. Il fatto che non sia corso ai ripari subito, al primo manifestarsi della “malattia” significa che la sua abiezione era tale da soffocare qualsiasi pur recondito, anche infimo senso di colpa. Colpa che ora è giusto che paghi.Non c’è dubbio. E non vale dire che come lui ce ne sono tanti, anzi, tantissimi. Al contrario, il fatto dovrebbe preoccupare e mettere in guardia su come la società cosiddetta”civile”, nel mondo occidentale, abbia permesso che crescessero e si propagassero di queste perversioni.

La riprovazione, in molti casi finta, della società, che compare solo a cose fatte è una conferma che l’ipocrisia è una “qualità” che contraddistingue molti comportamenti umani.

In tanti sapevano ma tutti tacevano. Frase che si sente dire spesso e in molte circostanze. Perché denunciare costa. Costa molto, in certi casi. E non parlo solo delle donne coinvolte, ma di tutto quel mondo “dorato” che gira intorno alle case di produzione, a certi ambienti che coltivano quasi amorosamente i più squallidi riti, quasi fossero prassi consolidata.

Ma che si estende a moltissimi campi dove la sottomissione della donna, usata come trastullo sessuale, è quasi la regola. Certo, molto dipende anche dalle donne che si lasciano usare. Non c’è alcun dubbio. Nei casi in cui non siano costrette con la forza ( e capita fin troppo spesso),nei casi in cui non ci sia un’imposizione violenta,allora la donna avrebbe il diritto/dovere di mandare al diavolo chi le fa certe proposte oscene e di denunciarlo.

Ma sappiamo bene che non è cosi semplice. E sappiamo bene che, spesso, è la società stessa, quella che dovrebbe chiudersi intorno alla vittima per proteggerla e consolarla, a comportarsi come il più spietato dei giudici. Senza pietà. E che il carnefice, troppe volte, diventa vittima e viceversa.

Oliviero contro i veneti

Non mi permetterei mai di dire dei toscani, quello che Oliviero Toscani dice dei veneti. Ma non mi permetterei di dirlo di nessuno. Ma il vizietto di questo signore, di questo artista un po’ bislacco, sembra essere quello di sparare a zero contro i veneti. Non resiste. Ora dice che tutti i veneti che hanno votato al referendum sono “mone” e contadini analfabeti, mentre i pochi che non lo hanno fatto sono l’elite di intellettuali.

Bene e allora? Sono veneta ma non mi sento offesa da queste parole, lo ritengo un personaggio che ha qualche problema di identità, uno che vuole stare sempre sulla scena, apparire sempre e dire quello che gli passa per la testa.  Per quello lo compatisco ma non mi sta certo simpatico.

Già, qualche tempo fa ci aveva dato degli ubriaconi, a tutti, nessuno escluso, compresi i  poppanti. Io sono astemia da una vita, ma faccio testo perché mi ha compresa tra questa categoria visto che non mi ha chiamato fuori per nome e cognome.

E’ stato denunciato e assolto e ci ha pure preso in giro. Ubriaconi non è un’offesa ma solo una categoria dello “spirito”, evidentemente.

Non dico che ai veneti (in generale) non piaccia il vino, no,… ma ai toscani? Forse a loro non piace? E a Toscani, piace? Mi sa di si e mi sa che ne fa grandi libagioni, più di quanto non voglia far credere. Ma io non mi sognerei mai di andare a dirlo in giro, mi prenderebbero per matta.

Invece lui, per che cosa viene preso? Per uno che parla a vanvera, nel migliore dei casi, almeno dai veneti.

Non si merita tutta questa pubblicità gratuita uno che ha di queste opinioni e ci tiene tanto a farle sapere. Oltre che un esibizionista mi sembra uno che non riesce a stare senza ricavarsi un posticino nei giornali dove si parli delle sue “sparate”.

Mi piacerebbe che me lo dicesse in faccia che sono “mona” e contadina ignorante, gli risponderei per i versi e gli spiegherei che quando si parla in pubblico se proprio non si può farne a meno, sarebbe bene darsi prima una controllatina ai freni inibitori ed una regolata alle valvole della buona creanza e se proprio vuole farsi pubblcità insultando un popolo intero, poi, a cose fatte, si metta davanti allo specchio e si dia del mona da solo. Perché solo un mona può dire certe cose e continuare a credersi un anticonformista. Cosa che Toscani non è mai stato, nonostante tutte le sue trovate per ritagliarsi uno spazio nel mondo e far credere di esserlo.

La sua faccia, a guardarla bene mi ricorda molto una pubblicità, una delle prime, sulla quale aveva messo la sua firma e che all’epoca scandalizzò molto ma fu molto utile per fare pubblicità a se stesso più che all’oggetto che pubblicizzava: un paio di hot pants con tanto di “contenuto” più fuori che dentro e con una scritta di grande richiamo mutuata da un’esortazione evangelica.

Totò, guardandola avrebbe esclamato: “quella faccia non mi è nuova”.

Neppure per Toscani lo è visto che la vede ogni mattina guardandosi allo specchio.

L’Italia è un paese per cani.

Si dice che l’Italia non è un paese per giovani, né per donne, né per anziani, ormai l’Italia è un paese per cani. Per i porci ci stiamo attrezzando. Si, perché da quando Silvio Berlusconi ha scoperto che Dudù gli ha curato la depressione post governativa, si è buttato a capofitto in questa campagna di sensibilizzazione verso gli animali. Non solo la pet therapy, ha scoperto che c’è tutto un mondo che gira intorno ai cani ed altre bestiole da compagnia e che ci girano intorno un bel mucchio di quattrini. E lui, si sa, per i quattrini ha fiuto. Li sente a naso. Come un cane da tartufi.

Dice che vuole facce nuove per Forza Italia. A cominciare dalla sua. Infatti rispetto a cinque anni fa sembra nuovo.

Fresco, scattante, magro, in piena forma. Sembra Ken, il fidanzato di Barbie. E si muove a scatti, fateci caso. Come  una marionetta. Questi anni di riposo forzato ne hanno fatto un uomo nuovo. Si era intristito per la vita ritirata che doveva condurre per non dare troppo nell’occhio dopo i vari scandali. Ma era una sofferenza, gli mancavano quelle tre quattrocento persone a cena, ogni sera. Ma doveva dare un taglio col passato per ritemprarsi ed ora eccolo di nuovo, che ci fa ciao con la manina. Più splendente che pria. Deve aver fatto patti con qualcuno. Ma ho l’impressione che non si tratti del Nazareno.

Dice che la nuova Forza Italia deve essere biologica, priva di conservanti, senza glutine, né olio di palma. La versione salutistica servirà a dargli uno scatto in più. Dice che la campagna elettorale sarà  improntata soprattutto sui cani e sui gatti. Che non votano, ma i padroni si. E lui che ha scoperto la sua vena animalista è pur sempre un animale politico. E per questo li reclamizza, li sponsorizza, si fa fotografare mentre li bacia. E la gente che è sensibile a certi argomenti non può fare a meno di correre a comprare una o due bestiole da tenere come figli.

Come il caso della dipendente dell’ Università  La Sapienza di Roma che ha chiesto ed ottenuto di avere due giorni di permesso retribuito per curare il suo cagnolino. Ha creato un precedente non da poco, ora gli assenteisti di professione si compreranno tutti un mastino napoletano e ad ogni raffreddore della bestiola chiederanno di restare a casa pagati per curarla. Siamo alla follia.

E ormai non si può più andare in nessun luogo: bar, ristoranti, negozi, dove non ci siano cani che poggiano il muso dovunque, magari senza guinzaglio, per non parlare della orrenda museruola. Te li ritrovi in mezzo ai piedi, cosi carini, educati e il padrone che ti ringhia se solo osi chiedergli di non essere leccato in faccia o avere le zampucce che camminano sui tuoi vestiti, magari inzaccherate. E’ buonissimo, ti dicono, guardandoti come si guarderebbe una mosca nella minestra.

Tutto merito di Berlusconi se ora ci sono in giro più cani che umani. Forse non è tanto male e forse i cani sono anche più intelligenti di tanti umani. Ma io non vorrei finire in un canile con una catena al collo se mi trovano a passeggiare in un parco senza una di quelle meravigliose creature al guinzaglio.

Non sono randagia e non mordo e nemmeno pretendo di leccare la faccia a nessuno.

Un sogno

Ho fatto un sogno, stanotte. Ero su un pullmann, c’era tanta gente, sembrava una gita e c’era anche Matteo Salvini. Ad un certo punto mi sono messa a cantare l’Inno di Mameli a squarciagola e altri mi hanno seguito ed è nato un coro spontaneo un po’ sgangherato, come quello dei calciatori durante le partite della Nazionale.

Anche Salvini cantava. Mi sono avvicinata e gli ho detto qualcosa del genere:” se sarai eletto farai il bene dell’Italia ” ?  Lui mi ha risposto con un sorriso sotto i baffi, senza parlare.

E io ho detto che non l’avrei mai votato perché le sue idee, in generale, non mi piacciono ma che volevo credergli e sperare che, nel caso, avrebbe fatto del suo meglio per portare avanti una politica “giusta”.

Il sogno l’ho fatto davvero, la verità però non so se era anche nel sorriso di Salvini, oppure se nascondesse una sottile presa in giro. Cioè, se non pensasse in realtà che ero una sognatrice e che avrebbe fatto il bene del suo partito, di chi credeva in lui, di chi lo aveva aiutato ad arrivare li e poi il bene di tanti altri, ma in questi “altri” l’Italia ci sarebbe entrata solo di striscio. Con tutta la buona volontà. Essendo umano. Io continuo a credere che l’Italia possa migliorare, nonostante le tante delusioni e le frustrazioni portate dalle politiche sconclusionate e spesso controproducenti degli ultimi decenni. Che possa ritornare ad essere un paese dove le ingiustizie sociali non siano cosi grandi, cosi evidenti e cosi ingiuste. Troppo ingiuste. Cosi ingiuste da aver superato ogni limite persino quello in cui si possono travestire e passare per cose giuste. Da non capire quasi più la differenza. L’ingiustizia ha inquinato e sta inquinando tutto: il cielo, la terra, il cibo, il lavoro, le relazioni, insomma, tutta la nostra vita.

E io vorrei che si passasse al disinquinamento di tutto ciò che ha fatto ammalare l’Italia e gli effetti della malattia si vedono a tutti i livelli. Che si potesse passare da un paese malato ad un paese in via di guarigione e che la convalescenza fosse lenta ma irreversibile.

Salvini o altri come lui non hanno che soluzioni tampone, tappano qualche falla qui e là ma il mare di guai in cui l’Italia naviga da troppo tempo, si riprende lo spazio e tutto ritorna come, o peggio di prima.

Ma, forse, sarebbe più utile pensare che il futuro porti qualche novità positiva, se non per tutti almeno per qualcuno. Quel sorriso sornione dell’ uomo politico era una speranza ma la logica dei sogni è spesso contraddittoria, potrebbe significare che ci veda il rovescio di quel sorriso e che il prossimo governo sia peggio dell’attuale.

Ho sognato Salvini perché il mio inconscio mi dice che sarà lui il prossimo capo del governo e che sarà la Lega a guidarlo? E’ una possibilità. Ma vorrei che fosse chiaro che si tratta di un sogno che non vorrei che si avverasse ma se succederà dovrò farmene una ragione. E forse il sogno mi avverte di cominciare presto.