Camino

“Son morto ch’ero bambino

Son morto con altri cento

Passati per un camino

Ed ora sono nel vento.”

Questo bellissimo verso della canzone “ Auschwitz” , straziante  e terribile, evoca molto bene la Giornata della memoria che si celebra oggi.

Era un gelido 27 gennaio del 1945 quando l’Armata Rossa  del maresciallo Ivan Konev è entrata nel Lager di Auschiwtz , quel luogo orrendo dove il delirio  nazista di presunta superiorità (avallato dalle ignobili Leggi razziali del fascismo) ha compiuto il crimine più terribile della storia dell’umanità: L’Olocausto, lo sterminio di milioni di ebrei , “passati per il camino” che fumava tranquillo e inconsapevole di alimentarsi di vite umane. Uomini donne e bambini sterminati con le orripilanti “docce” di gas e dei quali non dobbiamo mai perdere la memoria.

E se anche oggi qualcuno vorrebbe farci credere che questo orrore non sia mai avvenuto, dobbiamo mantenerne vivo il ricordo per sempre perché dimenticare sarebbe un altro crimine altrettanto orrendo.

Perché, come scriveva la grande filosofa Hannah Arendt “Non importa che ci sia chi crede nel nazismo o nel comunismo la cosa peggiore sta nel non saper riconoscere la verità dalla menzogna”. La menzogna su cui si fondano tutti i totalitarismi.

 

1 commento su “Camino”

  1. Nel giorno della memoria, in onore dei morti nei lager nazisti e in tutti i lager del mondo, Auschwitz di Salvatore Quasimodo:

    Laggiù, ad Auschwitz, lontano dalla Vistola,
    amore, lungo la pianura nordica,
    in un campo di morte: fredda, funebre,
    la pioggia sulla ruggine dei pali
    e i grovigli di ferro dei recinti:
    e non albero o uccelli nell’aria grigia
    o su dal nostro pensiero, ma inerzia
    e dolore che la memoria lascia
    al suo silenzio senza ironia o ira.

    Tu non vuoi elegie, idilli: solo
    ragioni della nostra sorte, qui,
    tu, tenera ai contrasti della mente,
    incerta a una presenza
    chiara della vita. E la vita è qui,
    in ogni no che pare una certezza:
    qui udremo piangere l’angelo il mostro
    le nostre ore future
    battere l’al di là, che è qui, in eterno
    e in movimento, non in un’immagine
    di sogni, di possibile pietà.
    E qui le metamorfosi, qui i miti.
    Senza nome di simboli o d’un dio,
    sono cronaca, luoghi della terra,
    sono Auschwitz, amore. Come subito
    si mutò in fumo d’ombra
    il caro corpo d’Alfeo e d’Aretusa!

    Da quell’inferno aperto da una scritta
    bianca: “Il lavoro vi renderà liberi”
    uscì continuo il fumo
    di migliaia di donne spinte fuori
    all’alba dai canili contro il muro
    del tiro a segno o soffocate urlando
    misericordia all’acqua con la bocca
    di scheletro sotto le docce a gas.
    Le troverai tu, soldato, nella tua
    storia in forme di fiumi, d’animali,
    o sei tu pure cenere d’Auschwitz,
    medaglia di silenzio?
    Restano lunghe trecce chiuse in urne

    di vetro ancora strette da amuleti
    e ombre infinite di piccole scarpe
    e di sciarpe d’ebrei: sono reliquie
    d’un tempo di saggezza, di sapienza
    dell’uomo che si fa misura d’armi,
    sono i miti, le nostre metamorfosi.

    Sulle distese dove amore e pianto
    marcirono e pietà, sotto la pioggia,
    laggiù, batteva un no dentro di noi,
    un no alla morte, morta ad Auschwitz,
    per non ripetere, da quella buca
    di cenere, la morte.

    (da Il falso e vero verde, 1954)

    Risposta
    bellissima e io rispondo con questa altrettanto bella dello stesso autore:

    «E come potevamo noi cantare
    con il piede straniero sopra il cuore,
    fra i morti abbandonati nelle piazze
    sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
    d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
    della madre che andava incontro al figlio
    crocifisso sul palo del telegrafo?
    Alle fronde dei salici, per voto,
    anche le nostre cetre erano appese,
    oscillavano lievi al triste vento».

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