Riflessioni su un’opera epica

Pubblico volentieri questo componimento di Alessandro Stramondo su un’opera letteraria che non ho letto ma, da quanto filtra dalle citazioni, ha un impatto visivo molto forte,  parole che mi hanno ricordato un’altra grande opera di un grande artista.

Non so perché (forse perché entrambe parlano della sofferenza umana), ma mi ha ricordato  Guernica di Picasso.

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“Per un momento s’era visto l’Jonio, con tutto che era in rema morta, gonfiarsi sulla mezzeria come se di colpo, animandosi si mettesse a respirare là, mentre durava ancora lo sconquasso di mare, ancora invisibile, l’orcaferone aveva scaricato lo sfiatatoio, facendo schizzare in alto in alto il suo doppio zampillo, e da sotto quel grande palmizio d’acqua cangiante di colore, l’animalone spettacoloso era infine apparso: un colosso nero, roccioso, che affiorava tra i suoi vapori come un isolotto oblungo di pietra lavica, il grano dorsale sbavato di schiume.”
Si tratta dell’orcaferone, animale marino sterminatore di pesci, noto col nome di orca, simbolo della morte, motivo centrale di Horcynus Orca ,  romanzo che ho scoperto solo di recente, il cui autore, il siciliano Stefano D’Arrigo, di grande talento, ma noto soltanto alle elites letterarie, impiegò più di vent’anni prima di darlo alla pubblicazione nel 1975.
Un’opera epica di grande respiro, una sorta di odissea tragica, fatta di mille tonalità di caratteri, umori e situazioni, in un linguaggio tutto particolare, frutto di una commistione di lessico italiano e termini dialettali filtrati dalla lingua italiana,  che ha come scenario il mare dello scill’e cariddi, ai tempi della seconda guerra mondiale.
Quel mare che dà vita e insieme morte: e col mare, tutta la vita che  esso contiene – mille specie di pesci, pescispada, squali e soprattutto i delfini che i pellisquadre, ossia i pescatori,  chiamavano “fere”, pesci bestini cha hanno “quell’impressione di riso perenne, di smorfia, di sfottò delle labbra beccute”; e perfino l’orca, chiamata anche ferone o orcaferone,  creduta immortale e dispensatrice di morte;.
Quello stesso  mare intorno al quale si svolge la vita dei “pellisqudre”, privati dalla guerra del loro mestiere,  o dei “riattieri”, genia da essi disprezzata, o delle spose e dei “muccusi” che attendono invano chi partì per la guerra, o dei combattenti, estranei portatori di rovine e di morte.
Fatti, evocazioni, ricordi, fantasie, meditazioni, credenze, favole, tutto si mischia in un’atmosfera onirica, cupa, pregna di sensualità e del sentore di morte, e una sensazione di mondo in disfacimento.
Impossibile in breve  spazio dare un’idea completa di quest’opera, mi limiterò  ad un’esposizione  fatta per sommi capi, citando, fra i mille, alcuni episodi che più mi hanno colpito, corredati da citazioni dello stesso autore.
Il protagonista, ‘Ndria, è un nocchiero semplice, della reggia marina italiana, lasciato in libertà dopo lo sbando seguito all’armistizio, una  sorta di Ulisse che ritorna in patria, percorrendo a piedi, lungo le spiagge, la strada del ritorno al suo paese, Cariddi, nelle sponda siciliana dello stretto.
Nel suo viaggio ha occasione di conoscere le “femminote”, energiche contrabbandiere di sale, di “incarnato tosto, prepotente, scuro, movenza malandrinesca, tutta naturale, d’un corpo statuario, di gran vista, però commisurato a se stesso, alla perfezione: un corpo alto di ponte, coscialunga, e gambe trampoliere, dalle larghe, nere, polverose piante dei piedi di sempre nudi…”Una delle quali lo ferma:
“Un soggetto capotico che a suo tempo doveva aver furoreggiato e ancora se la batteva, col personale grande e giovanile, la faccia tosta e lucida, gli occhi di piratessa, mezzi chiusi e terribili, la rughe che le tagliuzzavano la faccia… Vecchiaia o rasoiate, quelle rughe, o intacche, le stavano sulle guance come un tatuaggio con la data,  di quando doveva essere assai sbardellata e invogliante, una gran campiona di galeota, passionale e tragediatora, e gli uomini che ci incappavano, o finivano in carcere o finivano al cimitero.”
Lo ferma e gli offre la figlia, una muccusella, bellissima, sposa precoce e vedova illibata uscita di senno (il marito,  precettato lo stesso giorno delle nozze, è caduto in guerra) , affinché lui possedendola ne possa rompere l’incantesimo. ‘Ndria diffidente si esime, lei leggendogli la mano, si rabbuia, come avesse visto una profezia di morte.
Nel suo andare incontra  lo spiaggiatore, col suo “mosciame” di fera in spalla con cui sfamarsi, che gli parla del “visto con gli occhi”, di cui fidarsi, e del “sentito dire”, di cui diffidare, e tra il sentito dire, gli indica l’unica possibilità di traghettare,  in mancanza di ferribò, per mezzo delle trafficanti di sale. Tramontato il sole, lo spiaggiatore  si scava il letto in cui passare la notte come una tomba: ancora un sentore di morte.
Il  giovane  deve superare molti ostacoli prima di traversare lo stretto, si troverà tra  i campi dei colerosi e gli invaiolati, perché  “il morbo di faccia più notorio fu sempre quello, il vaiolo… e quelli col ricamo in faccia, essendo i più, apparivano al loro completo naturale, mentre quelli di faccia sana, essendo i meno, apparivano difettosi e  come fuori natura”.
Alle scene di desolazione si alternano ricordi dolorosi di bambino, di estrema pietà, come la vista del muccusello  morto.
“Nella controra… uno sprazzo di quel sole arraggiato  balenò dentro dal vano di porta… gettando l’abbaglio della sua lama, preciso, misurato, lì davanti, sopra un catafalchetto  tutto bianco e parato come una culla di vava addormentato… Era conzato tra le sedie impagliate, con decoro di lenzuola alle spalliere e imbottimento di origlieri dentro: il muccusello di sei anni e mezzo o sette…era bello, pulito, coi capelli come tagliati freschi all’umberta… era vestito in pompa magna… tutto di bianco…posava la mani sopra l’impugnatura di una spadina di latta… se la madre l’armò,  pensavano, segno che può averne bisogno… andava forse fra grandi e ignorati pericoli, dove sarebbe stato solo, senza madre, né padre, né un amico, nessuno, per sentirlo se gridava aiuto…
Ma riguardandolo in viso, il muccusello gli sembrò più grande, assennato e come invecchiato da un secondo prima, come uno che s’andasse a buscare il suo pane di morto in quell’impresa,  in quel lungo, lunghissimo anzi, per non dire infinito rischioso viaggio, e intanto si fosse appoggiato all’origliere per farsi un sonno…”Finalmente trova la femminota che lo traghetta su una barchetta,  una donna rude, energica, materna e sensuale, e un po’ fattucchiera, una  maga Circe, capace di remare da sola e addomesticare le “fere”, ossia i delfini, col suono di una campanella, din-din, e passare indenne lo stretto. Una sorta di viaggio agli inferi, compiuto  il  quale, i due avranno  una rapporto carnale:
Lei “mandò un sospiro lungo, lamentoso, rabbrividito, come esalasse l’anima, prima di calarsene, sprofondare dentro la nicchia di sabbia che s’era scavata sotto le spalle, e lì farsi consumare dal fuoco che lei stessa sbraciò e attizzò più volte, sinché non si ridusse in cenere.”

Il nostro eroe giunge in Sicilia in concomitanza con la scorreria di un’orca gigantesca, con una grande ferita al fianco che ammorba l’aria, metafora della morte,  del cui effetto distruttivo sono vittime due poveri pescatori: “padre e figlio erano tutti rotti dentro, con la ossa fracassate, senza più nodosità di spina dorsale né spigoli di spalla o rotondità di ginocchi e teste; erano ridotti ormai monchi e flosci dentro la loro pelle come dentro un sacco…”

Vaga tra luoghi e persone note, ma profondamente mutate, il padre Caitanello, costretto contro le sua convinzioni a mangiare carne di “fera”, la “zita” Marosa,  ormai donna fatta, che come penelope lo aspetta ricamando pesci, gli stessi pescatori che sentono la carestia di mare:
”il primo e più impressionante segno della carestia di mare è sempre questa moria di parole… il silenzio si sprigiona di là dalle acque incarognite e tocca terra, entra nelle case contagiando tutto e tutti come un vento colloso…”

Evoca l’Acitana moglie di Caitanello, e di essi  ricorda  le parole d’amore che  scambiavano di notte, incomprensibili per lui muccusello.
Passa in dolorosa rassegna le madri sugli usci con le foto dei figli, semmai ne avesse avuto notizie.
Una di esse, una donna gozzuta,
“si fece improvvisamente assorta, sola e derelitta, senza più spirito e senza più forze, lo sguardo lontano sullo scill’e cariddi, il collo stirato dietro lo sguardo, come per allungare la vista, e il gozzo che si spingeva contro la pelle, quasi sul punto di spaccarla, come uno spaventevole groppo di pianto, un grosso nodi di lagrime pietrificate a forma d’uovo di struzzo… e pareva che da un momento all’altro o si frantumava e scioglieva, o la strozzava… Continuò a chiamare Nino, Giacomino, a ciglio asciutto, e a un certo punto, quasi a labbro muto, ripetendo i due nomi tanto in fretta da parere una parola sola… come una parola magica… come s’aspettasse veramente di vederseli comparire là davanti, Nino e Giacomino, approdati per magia sulla marina, a braccetto col loro sorriso risplendente.”

Nel suo girovagare per riprender contatto con quel suo mondo che la guerra aveva  trasformato incontra il Maltese, agente coadiutore degli occupanti inglesi dell’Amgot, omosessuale, un tipo che
“aveva l’aspetto grezzo di un sensale di bestiame o d’un oliaro che con le misure d’olio si fece i piccioli… con un personale bastardo, di femminomo per così dire,… un busto squadrato e lardoso come una soppressata… i tratti dell faccia con boccuccia, nasetto, occhietti e orecchietti…”
Un incontro decisivo per le sorti di ‘Ndria , arruolato dal.Maltese per una regata al prezzo incredibile di 1000 lire, buone per l’acquisto di un palamitara. Ciò innesca nel giovane un lunhissimo processo mentale e un confronto col più autorevole dei pellisquadra, don Luigi Orioles, se è il caso di accettare l’offerta del Maltese, esorbitante e perciò ambigua, buona però per  acquistare una palamitara con cui ritornare sul mare e guadagnarsi la vita come una volta. Ma ‘Ndria capisce che i pellisqudre sono mutati, un altro è il favore che dovrebbe chiedere al Maltese, quello di uccidere l’orca, ormai scodata dalle fere, e  perciò come già privata della vita, e arenarla sulla spiaggia per sfruttarne le carni e la carcassa, un basso lavoro che i pellisqudre di un tempo non avrebbero mai fatto.

‘Ndria prende coscienza che non ci sarà barca su cui tornare a mare, ma barca come bara, come un  presentimento di morte. Lui non è l’eroe omerico che ritorna per ripristinare lo status quo ante, ma l’eroe sconfitto che vede il suo modo dissolversi come l’orcaferone
E la morte la troverà, in un lampo, per via di una pallottola di una sentinelle inglese. sulla barca dove vogava con la ciurma raccogliticcia,  quasi a voler raggiungere/fuggire da qualcosa di dolce/amaro.
“Spuntava la luna da Malta, scoprendo in quel cielo , appena fuori dello scill’e cariddi, banchi di nuvole bianchissime . Erano ormai a proravia della portaerei, quando la luna irraggiò in quelle profondità e sotto la corsa della lancia le acque scintillarono tenebrosamente… si sentì ancora il verso degli albanelli… e col verso degli albanelli, come se mirassero agli uccelli, si sentì da prora delle portaerei, la sparo di una sentinella che risonò come se graffiasse l’aria con uno strappo lamentoso…”
La ciurma continuerà a vogare per riportare ‘Ndria a casa:
“Allo scuro si sentiva lo scivolio rabbioso della barca e il singultare degl i sbarbatelli com l’eco di un rimbombo tenero e profondo, caldo e spezzato , dentro i petti. La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro dove il mare è mare.”
A mio avviso un capolavoro, e a detta di Giuseppe Pontiggia, un epos moderno simile all’Ulisse di Joyce.

Alessandro Stramondo

1 commento su “Riflessioni su un’opera epica”

  1. Mariagrazia, ti sono grato di avermi pubblicato, trovo l’accostamento con Guernica di Picasso azzeccata, la sofferenza unana trova diverse espressività, tutte valide se riescono a toccare il cuore umano.

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